16 marzo 2024

PIETRE MILIARI: Sambassadeur


Anna Persson è una ragazza di provincia. Linköping, la pigra cittadina piazzata giusto a metà fra Stoccolma e Göteborg in cui è cresciuta non è certo un prodigio di vitalità musicale alla fine degli anni '90, ma non è poi così diversa (né lontana) da quella Jönköping da cui un decennio prima erano decollati verso il mondo i Cardigans (che, sarà un caso, erano guidati da una cantante che con la nostra Anna condivide il cognome, Nina Persson).

In Svezia l'indie è un genere diffuso: la maggior parte delle band inglesi e americane un giro da queste parti se lo fanno volentieri, il pubblico è tanto composto quanto esperto, tanti hanno pure la loro piccola band amatoriale e si può dire che esista una "scena" in ogni città media o grande. Almeno una decina di label di tutto rispetto sfornano ogni anno dischi di gruppi di belle speranze che sognano di seguire la strada dorata dei Cardigans. L'indie svedese, si dice a inizio anni '00, è sul punto di esplodere (spoiler: non avverrà).

Quando si trasferisce per gli studi universitari a Skövde - il classico paesone dalle casette colorate, immerso nel verde paesaggio rurale svedese e popolato quasi esclusivamente da studenti - Anna è una delle tante ragazzine che ascoltano musica indie, con quello spirito onnivoro e innamorato della melodia che hanno tanti suoi coetanei scandinavi. Conoscere altri ventenni appassionati di musica non è certo difficile a Skövde, e infatti in breve diventa amica di due altri studenti che si chiamano Daniel Pernbo e Joachim Läckberg. I tre decidono di suonare insieme, mossi anche da una sensibilità che sembrano condividere a pieno: l'amore per tutto ciò che è catchy e gentile, elegantemente retrò e squillante di chitarre jangly. I primi tentativi (Anna canta con uno stile amabilmente algido che forse deriva dall'adorazione che ha nei confronti di Nico; Joachim suona le chitarre e Daniel la batteria) li convincono che ci vuole anche un bassista, e così scritturano un altro Daniel, che di cognome fa Tolergård. 


Nascono così i Sambassadeur. È il 2003 e di lì a poco i nostri lasceranno Skövde per basarsi ufficialmente Goteborg.

Il nome della band è un omaggio a un pezzo di Serge Gainsbourg, ma anche una dichiarazione d'intenti per una band che vuole suonare indie rock ma è innamorata tanto dei Teenage Fanclub quanto degli chansonnier francesi (Tolergård e Läckberg hanno fatto un semestre ad Avignone fra l'altro). C'è in giro anche una versione secondo la quale i nostri volevano chiamarsi Ambassadeurs ma il nome era già preso e così hanno aggiunto una "s", ma la spiegazione ha poco charme.

I Sambassadeur nascono come "band da cameretta", e un po' lo saranno sempre. Le registrazioni agli esordi sono praticamente dei demo, e il primo singolo Ice & Snow esibisce già nel suo dna tutta la poetica del gruppo. Una quieta contemplazione del mondo vista da dietro il vetro di una finestra (Seems like the word's still spinning round, 'cause the sun goes up and down, and when the early morning comes, it will be another one), perfettamente aderente al confortevole abbraccio della musica: il cembalo, le chitarre, il synth, la voce morbida di Anna, come una culla che ti accompagna in un'alba nordica. Una Sunday Morning sotto i cieli di ghiaccio della Svezia. 

E' il preludio al contratto discografico, che arriva in fretta e con la label indipendente più importante della Scandinavia, la Labrador Records, che nel delicato splendore dell'indie pop dei quattro deve avere intuito qualcosa di speciale.

E' il 2005 ed esce il primo EP della band, intitolato Between The Lines, come il pezzo che lo apre. Between The Lines è senza dubbio la signature song di tutta la carriera dei Sambassadeur: è il diorama dello stile di Persson e compagni e lo sarà sempre. Ed è semplicemente una delle canzoni più stupefacenti della storia dell'indie pop. La sensazione, come dagli esordi, è che ogni pezzo della band emerga come all'improvviso, senza introduzione, da una take casalinga che forse era in corso e che i nostri hanno deciso di tagliare con l'accetta. Due chitarre acustiche a cui poco dopo se ne aggiunge una elettrica con la sua punteggiatura jangly. Un basso gentile e pulsante. Il cembalo e il battito delle mani. La voce di Anna Persson che è un sussurro di miele. I cori che sembrano coperte calde. Le liriche da cui traspare una serena consapevolezza di essere diversi dalla massa e per nulla a proprio agio in mezzo agli altri, anche se proprio in quel momento sta suonando la tua canzone preferita (so i close my eyes, i'm focused on whatever's spinning in my my mind, and i try to find a sign, but i never learned to read between the lines). Ecco qua: i quattro ragazzi timidi di Skövde al primo tentativo hanno già scritto la loro perfect pop song, catturandola nell'aria come un'aurora boreale, così, senza alcuna perizia tecnica (che ancora non possiedono), senza alcun abbellimento produttivo. 


I tre altri pezzi dell'EP sono il riflesso sulla superficie ghiacciata di Between The Lines: la già citata Ice & Snow, la quasi dolente In The Calm, dove sentiamo per la prima volta la voce di Joachim (da qui in avanti si alternerà al microfono con Anna), l'inquieta Can You See Me, che pare un pezzo dei Broder Daniel (il più influente gruppo indie svedese dei Novanta, per chi non li conoscesse) in cui l'elettricità sembra però intrappolata all'interno. La cosa più post punk che Läckberg e compagni abbiano mai registrato. 

Ce n'è abbastanza per richiamare l'attenzione della critica, e parallelamente l'interesse della Labrador, che spinge per pubblicare il primo album del gruppo. Il metodo di registrazione e produzione tuttavia non cambia dagli esordi: in sostanza i Sambassadeur trasferiscono idealmente in studio (ancora a Skovde!) la loro cameretta virtuale (o viceversa!), senza fronzoli né particolari lavorazioni. E' l'anima sonora della band, e i quattro se ne sentono ancora profondamente custodi.

Sambassadeur, il disco d'esordio, esce il 1° giugno del 2005, e contiene le canzoni già pubblicate in precedenza. New Moon, il pezzo che lo apre, è di per sé una perfetta carta d'identità dello stile peculiare della band: l'intreccio scampanellante delle chitarre, la vocalità di zucchero e neve di Anna Persson, la ritmica squadrata ed essenziale, le liriche che fanno sempre entrare una lama di luce estiva a riscaldare lunghi giorni d'inverno scandinavo (always waiting for something more to come, always waiting for the summer sun...). Da qui in avanti l'album è un florilegio di carillon di pigra dolcezza: One Last Remark con il suo mandolino, Sense Of Sound con il suo contrasto fra la scabra e spiraliforme trama dei synth e il calore cantautorale di tutto ciò che vi si deposita sopra, e poi quel cantilenante prodigio che è If Rain, con il suo incalzare folk e le sue tinnanti memorie byrdsiane. Siamo solo a metà, perché i nostri hanno in realtà lasciato i loro capolavori in fondo: l'elettricità sognante di Still Life Ahead (i Pains prima dei Pains, ma più che altro ricordi di Jesus & Mary Chain), l'ipnotico poetico incedere circolare di La Chanson De Prèvert (una delle cover di Serge Gainsbourg più intelligenti e ispirate mai fatte), la già citata Between The Lines, la commovente fragilità di Just Because Of You, la parentesi indie rock del tutto inattesa di Whatever Season, il sipario che si chiude su una piccola piece pop come Posture Of A Boy che sembra uscita da un disco dei Magnetic Fields. 


Diciamocelo: pochi in giro per l'Europa si sono accorti dello scrigno prezioso e scintillante che i Sambassadeur avevano confezionato, riempiendolo di tutte le cose che avevano concepito nei primi due anni di vita della band. Qualche recensore più coraggioso - c'era anche il sottoscritto tra questi - parlò di via scandinava all'indie pop, trovando in questa programmatica complicata semplicità una strada decisamente più nuova e interessante di quella percorsa da altre band più in vista del momento. Una strada che gruppi come Belle & Sebastian e Camera Oscura hanno già ampiamente tracciato e che ora ha bisogno di ritrovare l'anima. 

Negli anni a seguire Joachim e compagni mettono in cantiere qualche tour che non si allontana di molto dalla Svezia, sfiora il Regno Unito e non si sogna nemmeno di varcare l'Atlantico. Insomma, i Sambassadeur capiscono già di essere destinati ad essere una "band locale", con qualche aggancio permesso dalla fama continentale della label per cui incidono, ma niente più, e non sarà forse un caso che tra poco intitoleranno il loro album più ambizioso European (ci arriviamo). 

In ogni caso i quattro non si perdono d'animo, anzi: l'entusiasmo per ciò che stanno creando è talmente palpabile che ne scaturisce immediatamente un nuovo EP, intitolato Coastal Affairs, che contiene almeno una canzone che diventerà un "classico" della band, quella Kate che è fatta letteralmente di brezza e nuvole. Ma ci sono anche una splendida trina jangly dinamica e trascinante come Marie e la bella cover di Claudine dei maestri neozelandesi The Bats. 

Ma è già tempo per i nostri di tornare in studio, questa volta seguiti da un produttore di livello come Mattias Glavå, uno che ha lavorato con pezzi da novanta della scena svedese come il menestrello indie Håkan Hellstrom e i già citati Broder Daniel. Narra la leggenda che, durante le session di Migration - questo il titolo del secondo album, che esce il 1° gennaio 2007 - Glavå in realtà passò il tempo ad osservare la band alle prese con i suoi limiti tecnici, senza fare nulla di particolarmente incisivo. Tuttavia è indubbio che il passo in avanti (o di lato?) è davvero evidente a tutti i livelli: già l'iniziale The Park, che ci riporta nella cameretta dei Sambassadeur con la sua adorabile nursery rhyme, suona in realtà diversa rispetto al passato, pur mantenendo quasi inalterato lo spirito artigianale dei primi tempi. 

Subtle Changes si intitola in effetti la seconda traccia, ma non è proprio una cambio sottile quello a cui assistiamo: la voce di Anna è più rotonda e gli archi che irrompono allegri fin dal principio spalancano la porta ad un arrangiamento che strizza l'occhio per davvero agli ABBA e nel finale si permette persino l'incursione di un sassofono, pur restando prudentemente nella zona di confort consueta alla band. 


Ecco, Subtle Changes inaugura ufficialmente il "secondo periodo Sambassadeur", dove il primo è quello intimo, lo-fi, a suo modo magico e quasi improvvisato e questo invece promette una dimensione che insegue gli stilemi del pop scandinavo che tutti riconoscono non per imitarlo, ma per assorbirlo, per farlo proprio. E', da questo momento in poi, l'ambizione mai nascosta di Anna Persson e soci. 

Prendiamo un pezzo come That Town: quello che sarebbe stato timido e crepuscolare nel primo periodo (perché il cuore è assolutamente lo stesso), ora è articolato e in piena luce, ed è palese la preoccupazione della band di riempire ogni possibile vuoto con qualche intuizione produttiva. Non che ci sia un vero horror vacui - lo testimonia la bella cover di Dennis Wilson Falling In Love, che inverte i fattori rispetto all'originale - ma traspare senz'altro l'idea determinata di spingere sul pedale melodico e non di nascondersi dietro i delicati merletti autunnali di Sambassadeur. Sentite cosa canta Anna nella deliziosa Migration (a proposito, la sua diventerà ormai la voce quasi esclusiva del gruppo...): exploring areas all wandering will be enough for you, your mind is filled with all the smallest things, you've got an eye for details too, ... know you've been running, but i've been runnig too,  the only difference is you don't mind the waiting, i do. Al di fuori della metafora è una bella riflessione sul percorso del gruppo: siamo andati forse troppo veloci? D'ora in avanti i Sambassadeur, per loro stessa ammissione, preferiranno l'attesa e scriveranno due o tre pezzi all'anno! 

La critica non ha amato particolarmente Migration, specialmente se confrontato con il precedente: troppe cose attorno, insomma, e poco importa se la sorridente raffinatezza di una Final Say con le sue citazioni dei New Order è a suo modo geniale. O se l'ampio strumentale Calvi riesce dipingere su una tela impressionista un paesaggio marino di impareggiabile bellezza, ed è un'altra prova incontrovertibile della capacità della band di usare i propri strumenti in modo intelligente e sempre equilibratissimo.

A questo punto Anna, Joachim e i due Daniel decidono di "godersi l'attesa", come dicevamo sopra. Non smettono di scrivere, ma lo fanno con una lentezza risoluta e programmatica. L'intenzione non è quella di ritornare alla celebrata purezza degli esordi, ma di insistere sulla via imboccata con Migration, e anzi lavorare per rendere il suono della band ancora più pieno, elegante, corrusco e quasi barocco. Non c'è alcuna novità nei modelli di riferimento, che in sostanza collegano con un ponte ideale i '60 della California e dei girl groups e gli '80 della Sarah Records e della Creation: è il carburante dei Sambassadeur da sempre. Ma ritornati in studio con il solito Mattias Glavå dietro il vetro, i nostri decidono stavolta che il passo deve essere per davvero mosso in avanti, e con decisione. Dopo un lungo iato silenzioso, i quattro arrivano infatti già con delle idee di arrangiamento che si possono tranquillamente dire orchestrali, un po' Phil Spector e molto Bacharach. 

Nasce così European, terzo album della band, il suo più completo e ambizioso, probabilmente il suo più bello se lo teniamo in mano tutto insieme (non ci sono le canzoni leggendarie del primo, intendo: va ascoltato un po' come un concept) e se lo consideriamo oggi in modo retrospettivo. 

Stranded, il pezzo che apre, è veramente la cartina di tornasole di tutto il disco e non a caso sta lì per farci capire cosa hanno combinato Anna e gli altri negli ultimi tre anni. La melodia che sta in mezzo è la consueta caramella colorata à la Sambassadeur che ti implora di essere scartata. Ma la confezione è tutta nuova, sgargiante, magniloquente: la scenografica introduzione di pianoforte, la batteria quasi ipertrofica, gli inserti strumentali che mettono zucchero filato ovunque, il midtempo che sembra così eccitato da non riuscire a contenere l'entusiasmo, la dimensione che sfiora i cinque minuti nella sua studiatissima circolarità. E' l'idea dei quattro svedesi di "timeless pop": una macchina melodica che va a tutta come i motori del battello ritratto nella splendida copertina e che sembra aver lasciato decisamente indietro l'eterea introversione dei tempi di Skövde e delle registrazioni casalinghe. Lo studio offre potenzialità, la Labrador evidentemente ha concesso un buon budget, e i Sambassadeur si giocano la loro carta surfando sulla cresta d'onda della loro carriera, nel momento in cui si sentono davvero più ispirati. Vada come vada.


Tutta l'infilata iniziale di European è una corsa a perdifiato dentro un paesaggio sonoro floreale e spumeggiante: Days (ma quanto è bella l'orchestrazione archi e pianoforte che incolla le sue due parti!), I Can Try (una delle cose più catchy e leggere che i nostri abbiano mai scritto, dentro un'architettura quasi barocca), Forward Is All (una delizia acustica che insegue Nick Drake nelle spirali dei suoi archi), e poi quella meraviglia di racconto di formazione che è Albatross, che poi è la summa di tutta la poetica dei Sambassadeur concentrata in tre minuti di viaggio in mezzo a morbide onde di archi (I was happier alone, cut my hair just like a boy, now I do stay away from trouble and dealings, I leave it just to be what it is, just a memory... confessa Anna con la sua impassibile serenità: il tempo è passato e noi non siamo più gli stessi, non resta che l'abbraccio dei ricordi...). Qui le chitarre scompaiono e lasciano che sia la sezione ritmica a soffiare delicatamente nelle vele: è una scelta "strana" per una band dal cuore jangly, ma gli orizzonti sono ora talmente ampi che si perdono in lontananza. 

La metafora del viaggio pervade l'intero album, e quando la Persson canta once more we'll take the risk to fall nella successiva intima High and Low sembra quasi esplicitare la consapevolezza che i Sambassadeur si pongono una metà davvero distante da quelle a cui sono abituati: una concezione di pop che sappia essere una catarsi di ogni fragilità, imbastendo tanti fili in una trama variopinta e vistosa, ma al contempo sottile e quasi impalpabile. L'infinita fanfara spectoriana di Sandy Dunes vista da questa prospettiva rivela tutto il senso dell'operazione che i quattro svedesi hanno messo in piedi: una luminosa celebrazione della malinconia (a year is passed without a trace, without a sound), una festa pop in cui tutti i timidi possono finalmente trovare il coraggio di ballare (can't stop us now, you see we've only just begun, an everlasting sound, that's what it's all about). E' il climax dell'album, che poco dopo si scioglie nelle liriche vagamente misteriose di Small Parade: la fanfara in effetti è passata, e resta una inspiegabile inquietudine in una notte quieta (they're resting tonight, all right, a bit too different in sight) mentre la band torna a spogliarsi di tutti i vestiti indossati nel resto del disco. 

Per i Sambassadeur - i ritrosi gentili quattro ragazzi di Skovde - European è stata una faticaccia, costata anni di lavoro certosino e un enorme coraggio nel perseverare lungo un tragitto che non era precisamente quello che i fan della prima ora desideravano da loro. Doveva essere l'album della consacrazione ma non lo è stato. Difficile trovare in giro una critica negativa di un disco oggettivamente così bello, ma in realtà non è stato capito fino in fondo, cosa che deve avere fatto abbastanza male ai nostri, anche se sono troppo riservati ed educati per confessarlo.

Da qui in avanti i Sambassadeur rallenteranno così tanto la loro produzione che per arrivare al quarto album bisognerà aspettare sette anni, quando ormai molti si erano persino dimenticati di loro. Lo intitoleranno (auto)ironicamente Survival, e sarà in buona parte un ritorno alle radici jangle e folk degli esordi (Foot Of Afrikka, il pezzo che apre il disco, è una perla), con qualche synth di troppo e un'aria generale non del tutto convinta. 

Dal 2019 ad oggi non ho idea se Anna, Joachim e i due Daniel siano ancora al lavoro, restando fedeli alla loro media programmatica di uno o due pezzi all'anno, oppure stiano dedicando le loro vite ad altre cose. 

Quel che è certo è che i Sambassadeur, nella storia dell'indie pop, sono stati precisamente quello che si definisce una "hidden gem", il tesoro nascosto ai più, un piccolo prodigio destinato - un po' per volontà della sorte, un po' per volontà loro - a diventare un oggetto di culto per un numero ridotto di appassionati. E chissà in fondo se i quattro studenti di Skövde se lo sarebbero aspettati, di divenire i portabandiera di un genere in fondo tutto loro e difficilmente etichettatile, e soprattutto gli alfieri pop dei timidi di tutto il mondo. 

08 marzo 2024

Hanemoon - Rain Or Shine ALBUM REVIEW

C'era una volta, in Germania, una band chiamata Seaside Stars. Che poi in realtà era un duo, visto che i titolari erano Hans Forster e Andy Schuwirth. I Seaside Stars non soltanto suonavano jangly pop: erano jangly pop, nella sua accezione più rotondamente perfetta, orecchiabile, sorridente, luminosa. Fecero un paio di album, proprio all'inizio degli anni '00, quando se dicevi jangle ti venivano in automatico in mente i Teenage Fanclub, che allora erano all'apice della loro carriera ed avevano trovato la pietra filosofale indie pop mescolando Scozia e California. 

Dopo quasi due decadi è sempre un piacere ritrovare una delle due metà dei Seaside Stars, il berlinese Hans Forster, alle prese con la sua nuova band Hanemoon, che con questo Rain Or Shine è arrivata, se non conto male, al terzo album. 

Diciamolo subito per chiarezza: l'anima jangly, leggera e gentile, amabilmente twee di vent'anni fa è rimasta vivissima e immutata nella musica di Forster.

Ascoltate My Circle Line, il pezzo che apre il disco, e avrete la percezione che l'orologio scorra delicatamente all'indietro, mettendosi a bottega dei Teenage - che è il modello più evidente - ma con lo spirito libero di un Glenn Donaldson, per parlare di un pezzo grossi del genere, con l'entusiasmo dei The Boys Of Perpetual Nervousness, per citare degli altri maestri del genere, e persino con un'orecchio puntato alle cose più catchy di Elliott Smith. Nell'album troverete dodici canzoni di timida ma risoluta bellezza, dinamicamente midtempo e sempre in bilico verso una dimensione cantautorale. 

01 marzo 2024

TTSSFU - Me, Jed and Andy ALBUM REVIEW

E' già da qualche tempo che Tasmin Stephens ha iniziato a pubblicare singoli, raccolte di demo ed ep usando il moniker TTSSFU, alternando la sua attività solista a quella di chitarrista nei Duvet. Andando a ritroso nella sua produzione precedente, è evidente l'amore viscerale di Tasmin per il post punk più seminale, quello dei primi anni '80 per intenderci, mettendo in comunicazione le atmosfere tese dei Joy Division, quelle goth dei Cure e la sfumata eleganza dei Cocteau Twins, unendole a stilemi invece più caratteristici dello shoegaze /dream pop di inizio '90.  
L'ep intitolato The Body del 2022 ne metteva già in luce - una luce algida e baluginante, intendiamoci - il talento notevole, in una dimensione che era ancora decisamente sperimentale e poco immediata. Con singolo At All, uscito sullo scorcio dello stesso anno, Tasmin mostrava un'apertura diversa, più ariosa e maggiormente nelle corde del pop obliquo e squadrato di Jesus & Mary Chain, proseguita più o meno con i pezzi pubblicati da quel momento in avanti (lo splendido e atmosferico  Yeah Yeah I Do ad esempio).

Me, Jed and Andy, primo mini album di TTSSFU, è assolutamente la prova della maturità per Tasmin, ed ha in più l'ambizione di sviluppare un concept attorno alla relazione fra Andy Warhol e Jed Johnson, il designer che visse con l'inventore della pop art negli ultimi suoi anni (Andy e Jed campeggiano nella bella copertina insieme a Tasmin). 

L'idea di post punk di notturna morbidezza cui ci ha ultimamente abituato la musicista mancuniana arriva alla sua pienezza nei sette pezzi del disco, partendo dai toni più oscuri di I Hope You Die e Jed e trovando a poco a poco una sua perfetta essenziale dinamica dream pop con la delicata e sfrigolante Baggage, con la solennità ipnotica alla New Order di Character, con la soffusa eterea raffinatezza di Asexual, e soprattutto con la forza avvolgente di Wait It Out e la sua trina di chitarre. In chiusura, la sontuosa Studio 54, che evoca davvero il fantasma di Warhol in una dimensione parallela dove voci e strumenti si fondono in una sognante onda sonora.

23 febbraio 2024

The BV's - Taking Pictures Of Taking Pictures ALBUM REVIEW

Sono passati ben cinque anni da quando usciva Cartography, il secondo album dei The BV's, e sette anni dal loro notevolissimo esordio Speaking From A Distance. Per molto tempo Josh Turner e Frederik Jehle, i due motori della band, hanno in realtà lavorato a distanza, tra la Cornovaglia e la Germania, e nonostante ciò il fatto che non convivessero nella stessa città ha prodotto un'unità d'intenti artistici perfettamente definita.

Dal 2022 Josh ha infine raggiunto Frederik ad Augsburg, e finalmente i BV's condividono anche lo stesso cielo, oltre al loro amore sconfinato per il post punk, il C86, la Sarah Records, la Flying Nun e tutto quel meraviglioso mondo dell'indie pop originario. 

Taking Pictures Of Taking Pictures (titolo concettuale, copertina che cita Unknown Pleasures smussandone gli angoli) è - lo dichiariamo subito - non solo il loro disco più maturo, ma un piccolo capolavoro di genere destinato a imprimere senza dubbio il nome del duo anglo-tedesco nel novero degli album migliori dell'anno appena iniziato.

Abbiamo spesso parlato dei BV's come di un gruppo nostalgico o addirittura filologico nell'affrontare i modelli degli '80 e '90 che hanno sempre evidentemente nel mirino. Tuttavia, davanti all'eclettico splendore di queste nuove dieci canzoni, sarebbe davvero un insulto per Josh e Fred insistere su questo punto e non sottolineare invece la loro straordinaria capacità di far vibrare di vita il loro guitar pop, pure in una essenziale e programmatica economia di mezzi.

Clipping, il pezzo che apre l'album, è già pura perfezione jangly in tre minuti canonici, una perla di radiosa semplicità che va a raccogliere le cose più zuccherose dei Bats e dei Pains Of Being Pure At Heart e le fonde nella stessa caramella. 

Con I Can't Stand The Rain siamo in una uggiosa domenica mattina d'inverno, ma tutto è illuminato da una chitarra scampanellante e da una melodia circolare che ricorda l'algida delicatezza dei Field Mice. 

L'omaggio ai Cure di Warp è talmente evidente nel carillon delle chitarre, che ti aspetti veramente che parta Pictures Of You (sospetto una tangenza con la tematica fotografica di tutto l'album), e invece è proprio uno di quei pezzi tipici dei The BV's, eterei nella loro luce di alba un po' scandinava (non so perché ma mi ha evocato subito gli Acid House Kings). Che meraviglia! 

Anything, con le sue liriche in tedesco, la voce notturna, il synth che tutto avvolge, il suo lento ma inesorabile crescendo ipnotico che si fa denso e mesmerico, va ad utilizzare in modo intelligente e delicatissimo le ascendenze krautrock che da sempre la band infila qua e là, e riesce a metterle magicamente in risonanza tanto con lo shoegaze umanistico degli Slowdive, quanto con l'indie pop di miele dei Blueboy. Brividi dall'inizio alla fine! 

Brividi che continuano poi nel lungo strumentale Kleber, che segue senza soluzione di continuità. 

Taking Pictures Of Taking Pictures, cuore dell'intero album, sboccia come un fiore primaverile da un prato di trame jangly, soffice e fragile nella sua dimensione di ballata d'amore a lume di candela (all of my life i have wanted to be close to you ripetono le liriche in modo ossessivo) . Poi a metà sorpresa: il giro cambia e si apre in un ritornello cantilenante e straniante. 

Sundays ha la grazia sorniona dei Go-Betweens: quella stessa aria un po' obliqua e insieme terribilmente leggera e catchy. E' il momento più rilassato del disco. Siamo dalle parti dei migliori Allo Darlin', specialmente nella lunga scintillante coda di cometa finale. 

Breakdown è un saggio di post punk in purezza, spruzzato di ironia (I had a brekdown in a autobahn, I had a breakdown in the service area, I had a breakdown in Bavaria...), incalzante e piacevolmente dissonante. 

Blue / Golden Sunshine attraversa un paesaggio dream pop indorato da una luce crepuscolare che potrebbe essere la stessa delle canzoni di Hazel English. E ti coccola cullandoti in un caldo abbraccio jangly e indicando il cielo blu, che è lì, proprio sopra di te mentre stai ascoltando.  

D../ infine ci lascia liberi di vagare in un territorio che è di nuovo psichedelico, così come sembrano liberi la chitarra, il basso, il synth e la batteria di dialogare e trovare l'armonia poco alla volta, in una session che evoca lo spirito guida dei Joy Division. 

Questi tutti gli episodi dell'album, che è in definitiva un tripudio di equilibrio, di idee grandi e piccole ma sempre brillanti, di immersioni ed emersioni, di luci baluginanti e ombre, di eccezionale immediatezza dove non te la aspettavi e di sapiente sperimentazione, di pulizia formale immacolata. In poche parole, un album di sfavillante bellezza. 

17 febbraio 2024

PIETRE MILIARI: The Pains Of Being Pure At Heart - The Pains Of Being Pure At Heart [2009]

Brooklyn. E' il 2007. Kip Berman è da poco approdato a New York ed è assolutamente il tipo del "giovane, carino e disoccupato" che si aggira nel folto sottobosco indie alla ricerca forse più di amici che di ispirazione. Ha ventisei anni, forse sa suonare un po' la chitarra elettrica, ma "a modo suo" - come dice lui - e sicuramente non ha idea che scrivere canzoni e suonare davanti a un pubblico diventerà presto il suo mestiere. 

Kip è un tipo sveglio e ha girato un po' di America prima di allora: il Wisconsin da bambino, poi Philadelphia da adolescente e infine Portland, Oregon negli anni di università, passati tra le aule blasonate del Reed College e i locali dove si agitava la vivace scena indie rock locale, quella che aveva laureato come star internazionali i Dandy Warhols, ma aveva anche visto nascere e morire (in un incidente d'auto) dopo un solo disco trionfale gli Exploding Hearts e aveva coccolato - giusto in quegli anni - gli inizi di una band eccezionale e sottovalutata come The Thermals. Una volta preso il diploma, Berman in effetti aveva scelto di non lasciare la West Coast e, mentre lavorava per un call center, si era dato pigramente da fare per fondare un paio di band più che amatoriali, che erano puntualmente implose prima che qualcuno si accorgesse della loro esistenza. E' a Portland che i suoi gusti si sono affinati, nutrendo una passione sconfinata per tutto il mondo indie dei due decenni precedenti, in un'era in cui le label indipendenti, di qua e di là dall'Atlantico, sfornavano band nuove una dietro l'altra, i negozi di dischi erano un luogo di ritrovo per tutti i nerd malati di rock e chitarre, e i magazine musicali facevano a gara a scovare i "nuovi Sonic Youth", i "nuovi Pavement", e così via. 

Quando Kip decide infine di licenziarsi dal suo poco entusiasmante impiego e cercare fortuna a Est, non è proprio un ragazzino, ma un po' lo sembra (lo sembrerà sempre con il suo viso efebico) e si porta dietro un misto di passioni e di curiosità che diventeranno lì a poco il carburante per le sue canzoni. Fare amicizia per un indie nerd come lui non è in fondo così difficile: basta frequentare i luoghi giusti, dove la musica si vende e dove la musica si suona. A Brooklyn non c'è una band che non trovi una venue, piccola grande che sia: si può letteralmente tastare il polso della musica rock della contemporaneità, ci si imbatte nelle mode prima che vengano lanciate, un po' si sperimenta e molto si vive di nostalgie post punk e il twee è uno stile di vita da esibire, roba da intellettuali che sembrano sfigati, o da sfigati che sembrano intellettuali. 

In questa temperie fervente e stimolante, Kip conosce per caso Alex Naidus, che è originario del New Jersey e sbarca il lunario facendo il redattore per un sito che si chiama eMusic e soprattutto ha i suoi stessi gusti musicali: gli Smashing Pumpkins di Siamese Dream, le cose più accessibili dei Sonic Youth, il twee punk dolceamaro dei Black Tambourine, i Vaselines scoperti (come tutti) grazie alla celebre cover acustica dei Nirvana, e poi tutta la discografia della K Records e un mucchio disparato di band nuove, come i Titus Andronicus e soprattutto gli inglesi The Manhattan Love Suicides (che, in definitiva, sono probabilmente la band a cui i Pains hanno cercato di assomigliare di più nei loro primi vagiti). 

In breve Berman e Naidus imbracciano rispettivamente chitarra elettrica e basso e buttano lì l'idea di mettere insieme una band. Siccome nello stesso torno di mesi i due hanno iniziato a frequentare anche una ragazza che si chiama Peggy Wang, che lavora per una promettente (!!!) start-up appena aperta che si chiama BuzzFeeed, suona le tastiere, ha qualche sparuta esperienza in gruppi da high school e pure ha una cotta per i Manhattan Love Suicides, i due la coinvolgono nel loro progetto e cominciano a provare qualche pezzo (alcune cover degli artisti sopra citati, qualche abbozzo di canzoni che poi diventeranno dei classici dei Pains). Niente batteria per il momento, ci si arrangia con un Sony Discman preso a prestito dalla mamma di Kip, con un un cd-r che contiene alcune basi ritmiche che ha registrato (e sarà per questo che il tempo dei primissimi pezzi è casualmente sempre il medesimo). Naidus suona con l'efficace essenzialità di cui è capace. Berman gratta i suoi accordi in maggiore e li fa sfrigolare mentre canta con voce ancora timida. Wang fa i cori e alterna la sua voce a quella di Kip ,un po' nello stile canonico degli Heavenly, ma è ancora più timida di lui. Insomma, cercano di essere pop e rumorosi al tempo stesso, che è - riassunta in poche parole - la summa di quello che diventerà la signature sonora del gruppo. Gruppo a cui - siamo ancora nel 2007 - manca giusto un nome. Mancanza a cui sopperisce Berman ricordandosi del chilometrico e suggestivo titolo di un racconto scritto da un suo compagno college, The Pains Of Beeing Pure At Heart appunto.

La nascita ufficiale della band coincide con la sua prima esibizione live, in un vecchio magazzino abbandonato dove si tiene la festa di compleanno di Peggy: giusto un pugno di canzoni, tra le quali gli embrioni di Contender, This Love Is Fucking Right! e Doing All The Things That Would'nt Make Your Parents Proud (è noto che Berman ha dichiarato più volte che i titoli erano più lunghi dei pezzi stessi). Canzoni pop e rumorose, appunto, accompagnate da una batteria campionata. 

Non sappiamo di preciso come i Pains vennero accolti da un pubblico composto prevalentemente da amici, tuttavia di lì a poco la neonata band comincerà a rimpinguare il repertorio e suonare in giro, imbarcandosi in un improbabile tour in club minuscoli a bordo della malandata Toyota Camry del padre di Alex, seguito da alcune date in UK dove Kip e compagni dormivano - se andava bene - dentro una vasca da bagno. Non per niente sul sito Myspace della band (c'era Myspace, all'epoca) i Nostri avevano orgogliosamente scritto "vogliamo essere la rock band più importante del mondo per 18 persone". Il che corrispondeva in effetti al numero medio di spettatori presenti ai loro concerti. Un numero direttamente proporzionale alle ridotte abilità tecniche dei tre, nascoste in genere dietro al muro sfrigolante degli strumenti. 

Molti avrebbero mollato lì, con ogni probabilità. E invece i tre Pains decidono di cercarsi un vero batterista. Lo trovano letteralmente "in casa": è Kurt Feldman, all'epoca coinquilino di Berman e - a differenza degli altri - davvero in grado di maneggiare il proprio strumento. Il che risulta particolarmente utile quando i Nostri riescono a registrare cinque pezzi e a pubblicarli in un EP sostanzialmente autoprodotto che porta il nome della band e conta pure una canzone che si chiama The Pains Of Being Pure At Heart, in cui Kip e Peggy ripetono ossessivamente nella strofa we will never die, no no we will never die, quasi a esorcizzare ironicamente un pensiero che al gruppo deve essere venuto per forza, cioè quello di lasciar perdere e tornare a fare dei lavori veri. 
L'EP è il biglietto da visita, un po' sgualcito ma terribilmente vivo, di una band che in verità a quello che fa ci crede in modo entusiastico. D'altra parte cosa si può dire davanti a un potenziale banger come This Love Is Fucking Right!, che apre l'ep con le sue chitarre che spumeggiano come una fresca bevanda zuccherosa da una lattina appena agitata, ed un ritornello che ha l'ardire di citare niente meno che un verso di Bob Dylan (you don't have to tell me twice, it's all right). Ci sono già tutti i Pains, dentro la lattina: il loro essere ruvidi e gentili al tempo stesso, la consapevolezza che ogni perfect pop song non ha bisogno di più di tre accordi, il frullatore di memorie musicali più o meno vicine che miscelano The Pastels, Teenage Fanclub, Jesus & Mary Chain, Field Mice, i primissimi Primal Scream... come palline di gelato in un milkshake. Senza fronzoli.  A loro modo perfetti già così, nell'imperfezione di una produzione che bada necessariamente al sodo. 

Pochi in verità si accorgono dei Pains fuori dal microcosmo indie di New York, e infatti nel 2008 la band più che altro suona nei locali che aveva frequentato agli albori, gli stessi per altro in cui Kip, Alex e Peggy si erano conosciuti. Troppo poco per sperare in un futuro nella musica e per pagare l'affitto senza avere un lavoro (infatti solo Kip si dedica interamente alla band) proprio mentre sta scoppiando la più grande crisi economica dal 1929. Poi, un giorno, Berman scrive una mail, come spesso fa da buon appassionato collezionista, a Mike Schulman della Slumberland Records, per ordinare la ristampa di un 10" dei Black Tambourine, e en passant accenna al fatto che ha un gruppo ed eventualmente pure della musica da fargli ascoltare. Schulman si incuriosisce e poco dopo invita i Pains ad aprire per uno dei suoi gruppi, The Lodger, nella data di Brooklyn, a cui lui stesso sarà presente. 

E' il passo decisivo - più casuale che realmente cercato - per firmare con una label storica come la Slumberland, cosa che avviene quasi immediatamente e che stupisce non poco i Nostri. Le registrazioni avvengono agli Honeyland Studios di Brooklyn, senza un vero e proprio produttore (dietro al vetro come ingegnere c'è Archie Moore) e, i Nostri cercano di rispettare il più possibile l'identità sonora delle origini: pulizia quanto basta, energia in abbondanza e scabra semplicità. 

L'apertura se l'assicura Contender, che è non a caso il primo pezzo scritto dai Pains ed è giustamente lasciato alla sua quasi totale nudità di voce e chitarra, al suo morbido intreccio di distorsione e scampanellii, alle sue liriche post adolescenziali che citano gli Exploding Hearts (you saw the boys in white sing "i'm a pretender", but you never were a contender) e sono intrise di un romanticismo di provincia incerto fra la malinconia tipica del loser e l'orgoglio di sentirsi diversi dalla massa.

In Come Saturday - che dopo i tre minuti trattenuti della canzone precedente esplode di energia compressa e scorre come un treno sui binari ritmici scavati dal basso di Naidus - Berman e Wang raccontano un amore da teenager con quell'aria teneramente naif che sarà uno dei marchi di fabbrica dei Pains ("chi se ne frega se c'è una festa da qualche parte, ce ne staremo in casa per conto nostro") . 

Fin qua né più ne meno la fotografia della band come era agli esordi. Con Young Adult Friction invece scatta qualcosa di diverso, qualcosa che fa letteralmente prendere il volo all'intero album (non è ancora atterrato, per la cronaca). La batteria di Kurt scandisce i suoi quattro quarti perfetti. E il synth di Peggy accende la luce in una stanza che era ancora semibuia. Tutto è semplice e vibrante, terribilmente catchy, soffice e scintillante di elettricità. L'urgenza comunicativa si percepisce dentro ogni parola, dentro ogni nota. Berman e compagni hanno scritto una delle canzoni sul coming of age più memorabili di sempre, e forse nemmeno lo sapevano. Il don't check me out ripetuto all'infinito nell'outro è un proclama di libertà da parte di chi non vuole davvero "diventare grande" ed è un altro must del gruppo. 

Da questo momento in avanti la strada è ampiamente tracciata, e gli episodi successivi corrono rapidi e luminosi, uno dietro l'altro, con un'urgenza comunicativa debordante e torrenziale. This Love Is Fucking Right! - già ne abbiamo parlato sopra e, no, non è affatto una canzone che racconta di una relazione proibita tra fratello e sorella, come si è vociferato - e poi le trame jangly lineari di The Tenure Itch, che girano intorno ad uno dei ritornelli più orecchiabili dei Nostri (every night he comes and goes again) e contrastano con la storia vagamente inquietante che viene raccontata (una relazione tossica fra un docente e un'allieva?). 


Stay Alive, cuore pulsante dell'intero disco, sta ai Pains Of Being Pure At Heart come There Is A Light That Never Goes Out sta agli Smiths. Al posto del romanticismo macabro di Morrissey, ecco la tenerezza sorridente e risoluta di Berman. Musicalmente, è la cosa più vicina ai Ride di Twisterella che i Nostri abbiano scritto (giusto per citare l'ennesima reference). Dentro c'è tutto quello che i Pains sanno fare, ed è evidente che i tre minuti canonici non bastano a contenere tutto: la propulsiva progressione acustica, l'andamento circolare e cantilenante della linea melodica, le voci soffici di Kip e Peggy che si mescolano lievi, il distorsore che fa deflagrare il ritornello portando le liriche fuori dalle tenebre che raccontano (don't you try to shoot up the sky, tonight we'll stay alive). 

A chi parla Berman in quasi tutte le sue canzoni? Lo abbiamo capito, passo dopo passo: al teenager che non è più, quello a cui dà la mano in Everything With You (I'm with you, there's nothing left to do), che è un po' il lato B di Stay Alive, la sua versione punk. Quando scrivono le loro canzoni, i Pains sono più vicini ai trenta che ai venti, ma c'è sempre un diciottenne insicuro a cui dare del tu e cui dire "ti capisco, sono come te, c'è tanta gente come te da conoscere se esci dalla tua cameretta". Nella letteratura musicale twee in cui sono immersi è come se i quattro Pains (Berman soprattutto) si fossero trasformati negli indie-idols che hanno sempre sognato, ed ora fanno il loro dovere di supereroi: salvano gli sfigati con l'indie pop. Esattamente ciò che cercano di fare con la ragazza (ragazzo?) innamorata/o di Cristo e dell'eroina di A Teenager In Love. Che è forse il pezzo più delicato dell'intero lotto, e paradossalmente il più disperato (and if you made a stand, i would stand with you till the end). Esattamente ciò che fanno con il Paul di Hey Paul, che da quando è nato aspetta "qualcuno" o "qualche canzone" che lo salvi. 


E' chiaro che quando Kip, Alex, Peggy e Kurt hanno messo insieme i pezzi del loro album volevano costruire un piccolo ma potentissimo marchingegno catartico. Perché catartici sono le melodie che si possono cantare dentro la testa o a squarciagola e catartica è l'elettricità che sfrigola dall'amplificatore delle chitarre. E Gentle Sons, ultimo episodio del disco, trova la sua catarsi nel ritmo marziale della batteria, nel flusso ormai incontrollato dell'energia statica e nel carpe diem di una notte che sembra non voler finire ("oh no, dici che hai bisogno di un amico, ma non potremo vivere per sempre").

Bene. The Pains Of Being Pure At Heart, l'album di debutto, sta tutto qui, compatto e coerente nel suo essere gentile e rumoroso, nel raccontare la fragilità e offrire un appiglio per affrontarla. 

Da un punto di vista oggettivo, non è il disco più riuscito di Berman e compagni, che da questo momento per un paio d'anni trasformeranno in oro qualsiasi nota suoneranno: l'EP Higher Than The Stars alla fine del 2009, il singolo Say No To Love (la canzone più straordinariamente potente che abbiano scritto) nel 2010, e il secondo album Belong, pieno zeppo di cose magnifiche, più rotondo, più prodotto e ancora perfettamente aderente all'estetica dei giorni in cui suonavano nei pub di provincia di fronte a sei spettatori. I due dischi successivi, corrispondenti a una progressiva diaspora dei membri della band, saranno in sostanza Berman-centrici e punteranno a dare un contorno quasi barocco al suono originario dei Pains. Saggiamente, arrivato alla consapevolezza che non c'erano più teenager problematici da salvare con quella musica, ma solo trenta-quarantenni da solleticare con il fantasma luminoso dei fasti dell'indie pop, Kip chiuderà ufficialmente la band e si dedicherà in sostanza alla famiglia e al progetto cantautorale The Natvral. Di Peggy Wang si sono perse le tracce. Kurt Feldman ha continuato a suonare da turnista per altri artisti. Alex Naidus è in verità l'unico che porta avanti lo spirito dei Pains, ma nella loro reincarnazione losangelina, gli ottimi Massage. 

Insomma, The Pains... non è forse un capolavoro, ma è il disco giusto al moneto giusto, perfetto per un momento storico in cui l'indie viveva un lungo canto del cigno dopo i fasti dei '90 e rischiava di declinare in un manierismo sempre più tangente all'elettronica. Stava lì a dimostrare come bastassero pochi ingredienti - presi dagli ingombri scaffali dei decenni precedenti - per costruire qualcosa che non era nuovo ma al contempo era nuovissimo, e unico, e che forse non apriva una nuova epoca ma ne chiudeva una in modo spettacolare. 

13 febbraio 2024

Ducks Ltd. - Harm's Way ALBUM REVIEW

Jangly e uptempo, più neozelandesi che californiani nello stile, i canadesi Ducks Ltd. avevano esordito un paio d'anni fa con un album che ne aveva messo in luce un notevolissimo talento in bilico tra freschezza e nostalgia.

Tom McGreevy e Evan Lewis sono arrivati al "difficile secondo album" senza perdere la brillantezza del debutto, con nove canzoni che ancora una volta evidenziano lo stile peculiare della band che, un po' come i Bats - giusto per giustificare il riferimento neozelandese - è catchy ma mai fino in fondo, apparentemente leggero e al contempo sempre inquieto e sottilmente ombroso. 

Un'inquietudine che non si nasconde nel suono scampanellante delle chitarre - come accade per altre band - ma sembra proprio tradursi in esso, in particolare nelle sue trine torrenziali, rapidissime,  incalzanti (prendete The Main Thing ad esempio) e tutt'altro che leggiadre, con le uniche eccezioni della più luminosa Deleted Scenes e dell'acustica conclusiva Heavy Bag

08 febbraio 2024

Flight Mode - The Three Times ALBUM REVIEW

Guardando a ritroso (con un pizzico di nostalgia), è evidente come l'età d'oro dell'indie rock - iniziata sullo scorso degli Ottanta con il genio seminale dei Pixies e proseguita in mille rivoli nei Novanta - abbia vissuto il suo canto del cigno con i primi tre album dei Death Cab For Cutie, forse l'ultimo gruppo che abbia detto realmente qualcosa di nuovo in una scena che, tutt'altro che esaurita, cominciava inevitabilmente a stabilizzarsi dentro il perimetro dei canoni di genere. Parliamo di vent'anni fa, più o meno.

Quanto quegli album siano entrati potentemente nell'immaginario, lo leggiamo con facilità in decine di band di oggi, formate da musicisti per cui l'indie di quei tempi è un dato spesso precedente anche alla propria nascita. Tra tante, mi sembra davvero che meritino la nostra attenzione i Flight Mode, terzetto di Oslo che negli ultimi anni ha pubblicato tre ep che oggi finalmente vengono messi insieme a formare un album di debutto di poderosa bellezza. 

Sjur Lyseid, l'anima dei Flight Mode, in verità non è un novellino, anzi. Qualcuno se lo ricorderà una quindicina di anni fa con un progetto solista che si chiamava The Little Hands Of Asphalt, che ne aveva messo in luce il talento di scrittura e un amore per il folk rock americano piuttosto diffuso nella scena indipendente norvegese.

Nella sua incarnazione maggiormente rock, Lyseid ha compiuto esattamente la stessa parabola della band di Ben Gibbard: è partito con uno stile più ruvido e uptempo che qualche recensore ha etichettato (secondo me sbagliando) come emo punk (sono i primi quattro pezzi del lotto, piuttosto vicini alle cose di ME REX o dei Great Grandpa, per intenderci) e poi ha proceduto a smussare via via gli angoli, fino ad arrivare alle canzoni più morbide e intrise di folk contenute nell'ep che esce coevo all'album. Insomma, la struttura particolare di The Three Times permette di apprezzare in modo evidente un'evoluzione che non ha tanto a che fare con la qualità (che è alta sempre), quanto con un mood compositivo progressivamente diverso. 

Ciò che rimane fortemente caratterizzante nel suono dei Flight Mode è un'energica immediatezza, che si esprime sia quando l'elettricità è lasciata più libera di fluire con fragore, che quando i ritmi rallentano. 

Un grande album fatto di tre piccoli grandi album!

03 febbraio 2024

Anika Pyle - Four Corners EP REVIEW

Nel vasto mare di cantautrici che riempiono la scena indie, Anika Pyle è da molto tempo una piccola isoletta che pochi appassionati incrociano sulla propria rotta, ma molto amata di chi la conosce. Con un passato in una band punk, da cinque anni la musicista basata in Colorado ha iniziato una carriera solistica che mette insieme una propensione folk pop (un po' la stessa di Big Thief o Waxahatchee) dai contorni minimali ed una forte caratterizzazione narrativa e introspettiva delle proprie liriche. 

Mi sono imbattuto nel nuovo ep di Anika senza grandi aspettative - avevo già ascoltato il suo album del 2022, che non mi aveva convinto del tutto - e devo dire che stavolta mi ha letteralmente preso il cuore.

Come sempre, la Pyle mette in campo un grande talento nel raccontare la sua quotidianità e i suoi luoghi dell'anima (le quattro canzoni del disco sono dedicate rispettivamente al quadrilatero Arizona, New Mexico, Utah, Colorado), ma questa volta è come se avesse liberato il proprio stile e la propria voce, costruendoci attorno una dimensione sonora più ampia, apertamente pop quando serve (Arizona è davvero un piccolo banger di genere, che ti proietta concretamente nel paesaggio che attraversa: driving down this desert road, stretching straight to Mexico, Tom Petty on the radio, hand out the window...), delicatamente folk e sempre perfettamente equilibrata negli altri momenti.

La conclusiva Colorado Sage, con la sua piana e commovente confessione di un'infanzia vissuta in povertà estrema ("ma mi sentivo ricca e libera, correndo tra i campi di salvia del Colorado"), è un piccolo capolavoro di poetica semplicità. 

30 gennaio 2024

The Umbrellas - Fairweather Friend ALBUM REVIEW


Ci sono band in giro che sembrano davvero reincarnazioni di gruppi del passato. Alcune lo sono consapevolmente, altre probabilmente no. Molte non hanno gran che di nuovo da dire rispetto al loro modello, altre invece semplicemente si impadroniscono di uno stile e lo fanno rivivere intorno alla propria proposta peculiare. 

Nel caso dei californiani The Umbrellas, l'adesione alla lezione dei maestri Heavenly è così piena ed entusiastica da rendere orgogliosi - ne sono certo - persino Amelia Fletcher e Rom Pursey. 

Un'adesione che fa muovere ogni canzone della band di San Francisco dal canone indie pop del mitico gruppo inglese dei primi '90 - le melodie floreali e inevitabilmente catchy, le chitarre frizzanti e scampanellanti, le ritmiche uptempo, la compenetrazione fra folk e punk, l'alternarsi e mescolarsi delle voci maschile e femminile, l'estetica twee come modo di essere prima ancora che di suonare, la nostalgia un po' naia per il bubblegum pop dei sixties, lo spirito integralmente artigianale della produzione  - con una vitalità debordante e luminosa che è veramente una benedizione e che a ben vedere finisce addirittura per superare i maestri. 

Fairweather Friend presenta senza soluzione di continuità un'infilata micidiale di pezzi leggeri, intelligenti, canticchiabili, pieni di piccole sorprese, sinceramente travolgenti, in grado di essere delicati e insieme sferzanti allo stesso momento. Rispetto alla durata classica di due minuti e trenta dei gruppi dell'era Sarah Records, che sono evidentemente nel mirino degli Umbrellas da sempre, la band di Matt Ferrara con questo secondo album sembra voler superare le cose degli esordi (The Umbrellas è del 2021) confezionando le sue perfect pop songs con l'ambizione più definita di usare una palette espressiva più ampia che crei in definitiva un percorso variegato, un po' sulla scia di gruppi affini del recente passato come Allo Darlin e Camera Obscura o del presente come i Say Sue Me. 

Prendiamo ad esempio l'architettura decisamente complessa di una Say What You Mean, che sviluppa una narrazione ampia di stampo decisamente cantautorale infilandola con un'abilità pazzesca nei confini dello stile dolcemente arrembante della band. La stessa dimensione che ritroviamo poi nella splendida acustica Blue. Oppure prendiamo i cambi di ritmo dell'iniziale Three Cheers!

Ma alla fine dove la band di San Francisco riesce davvero ad essere incredibilmente efficace è nei pezzi trascinati dalle chitarre jangly e dalla variopinta coloritura delle armonie vocali: When You Find Out, con la sua sfrontata propulsione pop, è l'esempio migliore, ma anche la conclusiva P.M., che è una Boys Don't Cry in salsa twee / power pop. 

Per The Umbrellas questo Fairweather Friend è senza dubbio l'album della consacrazione nell'Olimpo dell'indie pop di oggi: un disco maturo, spumeggiante, coinvolgente, filologicamente retrò ma senza averne l'aria. 

25 gennaio 2024

The Fauns - How Lost ALBUM REVIEW

Si erano perse le tracce dei The Fauns, dopo che la band di Bristol era stata protagonista di una piccola wave di shoegaze revival una quindicina di anni fa. In verità il gruppo di Alison Garner non ha mai suonato uno shoegaze canonico (se mai ne esiste uno), ma fin dagli esordi ha utilizzato elementi del genere - soprattutto le chitarre riverberanti e immersive e una insistenza dilatazione melodica - per farsi la propria strada e costruire uno stile decisamente cinematico e piuttosto algido.
Ritornati dopo una pausa creativa di dieci anni, i Fauns ripartono con un pezzo (quello che apre l'album) di densa suggestione, Mixtape Days, che nelle liriche rievoca l'indie clubbing sullo scorcio fra '80 e '90 e nella portentosa struttura sonora, oscura, incalzante e avvolgente, sta tra i Cure più scenografici e i Blonde Redhead di 23
Suoni elettronici, ritmiche squadrate e chitarre atmosferiche à la Martin Gore, anche nel secondo episodio: una Shake Your Hair intrisa di un romanticismo distopico e inquietante. 
Se i primi due pezzi ci introducono in un buio sottilmente claustrofobico, l'apertura di How Lost riaccende la luce e si infila nei binari più confortevoli di un dream pop al contempo solenne e cantilenante, dove synth, chitarre e voce si fondono insieme in un lungo bagliore finale. 
Di nuovo un tuffo in una notte liquida con Afterburner (la voce di Alison che si fa a poco a poco sussurro in un gorgo di rumore bianco che inghiotte il pezzo), prima della splendida, distesa e sognante Doot Doot, che è una sorta di geniale ibrido fra lo shoegaze e gli Eurytmics, che svuota la forma canzone classica pur conservandone l'immediatezza melodica e da un punto di vista di raffinatezza produttiva è il vertice di tutto l'album. 
A chiudere l'elettronica oscura e quasi ballabile di Modified e Dark Discoteque. E infine l'orizzonte emozionante e crepuscolare di Spacewreck, vasta scenografia che si allunga all'infinito sulla scia dei synth. 
How Lost è un album ambizioso, deliberatamente atmosferico, in verità difficilmente inquadrabile in un genere preciso: più una colonna sonora (molti i rimandi tra un momento e l'altro) che una vera e propria raccolta di canzoni in senso stretto, sicuramente affascinante.