27 maggio 2017

Fazerdaze - Morningside [ALBUM Review]

Quando ho ascoltato per la prima volta Last To Sleep, il pezzo che apre Morningside,  l'album di debutto di Amelia Murray, in arte Fazerdaze, ho avuto la netta sensazione di trovarmi davanti a qualcosa di memorabile. Tutto, dall'essenziale strum della chitarra alla misurata dolcezza della voce, dalle bollicine di synth alla ritmica insolitamente asimmetrica, concorre all'efficacia di un indie pop intelligente ed estroso alla Waxahatchee che non possiamo non amare. A maggior ragione se, continuando nella prodigiosa infilata iniziale del disco, finiamo per essere vittime inermi e felici del ritornello killer di Lucky Girl, del ruvido fascino di Misread e della inattesa leggerezza jangly di Little Uneasy
Amelia, che è di Auckland ed è indiscutibilmente molto brava (suona e produce praticamente tutto da sola), non a caso è stata messa sotto contratto da una label leggendaria come la Flying Nun, e non a caso i suoi pezzi possiedono quell'aria di micidiale nonchalance che è il tratto distintivo dei maestri neozelandesi, quella capacità innata di fare sembrare facili cose che non lo sono affatto e di far esplodere le canzoni all'improvviso lasciandole fluire come torrenti in piena (immaginate l'ottima Take It Slow eseguita dai Bats). E in verità tutto l'album è caratterizzato dalla naturale compresenza di elementi opposti: sulle prime pensi ad una dominante sonorità lo-fi ma ti accorgi presto che tutto è studiatissimo e levigato (le armonie di Shoulders sono un buon esempio); non c'è una ricerca esibita dell'immediatezza, eppure questa esce da sola quasi ovunque; quasi tutte le canzoni si muovono da una dimensione quasi acustica da bedroom pop o comunque essenziale (voce e chitarra), ma sotto traccia c'è sempre una fragorosa elettricità pronta a liberarsi. 
Uno dei dischi "importanti" di quest'anno. 


 
 
 

23 maggio 2017

The BV's - Speaking From A Distance [ALBUM Review]

Come abbiamo già avuto modo di dire in passato, la poetica che quasi trent'anni fa riuscì a creare la Sarah Records è uno dei canoni più influenti sull'indie pop di oggi. Considerando che gran parte dei gruppi odierni che si ispirano all'estetica della label di Bristol all'epoca non erano nemmeno nati, di certo non si può parlare di nostalgia. Piuttosto è una questione di attitudine: l'adesione ad un modo di scrivere e suonare canzoni che era allora ed è oggi magnificamente demodé. Tante band si limitano ad una sostanziale imitazione dei modelli e dichiarano volentieri i loro ascolti del movimento C86, dei gruppi della Flying Nun e dintorni. Altre invece - a prescindere dalle somiglianze e dagli omaggi più o meno consapevoli - utilizzano le suggestioni del passato per creare un suono personale. 
E' senz'altro il caso dei The BV's, duo proveniente da Falmouth che con Speaking From A Distance si mette subito in lizza per vincere il titolo di debutto indie pop dell'anno. Già l'origine della band profuma di piccola vicenda esemplare: Frederik Jehle, che è tedesco, si è trasferito per sei mesi in Inghilterra ed è finito per caso a vivere nello stesso appartamento con Josh Turner; i due, che sono musicisti, scoprono un retroterra di ascolti compatibile e cominciano a registrare in casa canzoni che solo grazie all'interesse di una piccola label di Augsburg oggi possiamo scoprire. 
I dodici episodi del disco parlano una lingua che ogni appassionato di indie pop capisce al volo: chitarre jangly in uno splendido ipnotico profluvio, un pensoso dinamismo che tutto pervade, melodie placide e immediate al tempo stesso, suono ovunque lo-fi, qualche strategica impennata elettrica ed una scelta di equilibrio che sta a metà tra la pop song di due minuti (H And M è la mia preferita) e composizioni più dilatate e complesse che invadono volentieri il campo del dream pop con lunghe partiture strumentali e riverberi.
Può darsi che nei 45 minuti dell'album (che i due BV's ci chiedono di ascoltare senza interruzioni) qualcosa non convinca a pieno, ma è indubbio che Fred e Josh abbiano un talento ammirevole nel maneggiare questo tipo di materia, e pezzi come Ray, Im Spiegel Deiner Augen, To No Ar, Always sono dei gioiellini che brillano di luce propria.


18 maggio 2017

Hazel English - Just Give In / Never Going Home [ALBUM Review]

Ha fatto una scelta originale Hazel English: anziché puntare su un secondo EP dopo il magnifico Never Going Home, uscito l'anno scorso, ha deciso di allegare quest'ultimo al suo nuovo lavoro, costruendo così un album (Just Give In / Never Going Home) che nient'altro è se non è la somma algebrica dei due. 
Rispetto a quanto già abbiamo entusiasticamente detto un anno fa, la cifra stilistica messa a punto da Hazel e dal suo stretto collaboratore Jackson Phillips non è cambiata, ma se prendiamo come esempio la luminosa e incantevole fluidità del singolo Fix non possiamo che apprezzare il lavoro svolto dalla musicista australiana (ma californiana d'adozione) nel perfezionare quel suono dream pop levigato e scampanellante, denso e arioso allo stesso tempo, che è diventato un marchio di fabbrica ormai fortemente riconoscibile. 
Ecco allora che in tutti i validi nuovi episodi troviamo la sua voce delicata al centro di una intricata ed elaboratissima ragnatela sonora intessuta di synth e chitarre jangly, che potrebbe essere una versione più immediata e morbida delle fughe oniriche dei Fear Of Men o di Japanese Breakfast. 
Per chi non ha ancora avuto modo di conoscere Hazel, l'album sarà anche un'ottima occasione per riscoprire le affascinanti canzoni del suo primo EP, Never Going Home e Make It Better su tutte. 


 

13 maggio 2017

Monster Movie - Keep The Voices Distant [ALBUM Review]

Parlavamo la settimana scorsa del ritorno degli Slowdive ed eccoci di nuovo a parlare di Slowdive, visto che Christian Savill - che degli Slowdive è da sempre il chitarrista - è anche l'anima dei Monster Movie. Verso il crepuscolo dei Mojave3, prima reincarnazione degli Slowdive nel loro iato creativo, Savill si era fortemente impegnato nella sua band personale, pubblicando dal 2002 al 2010 quattro album di buon livello, capaci di conservare in nuce l'attitudine shoegaze-pop delle origini e di ibridarla di volta in volta con cose diverse, in ultimo un po' di sobria elettronica.
Keep The Voices Distant arriva quasi inatteso, considerando l'hype che circola attorno al nuovo progetto Slowdive realizzato con il socio Neil Halstead, e rischia di essere messo in ombra da quest'ultimo. Indubbiamente sarebbe un peccato perchè, diaciamolo subito, il disco dei Monster Movie è assolutamente allo stesso livello qualitativo, e in più possiede una misurata leggerezza melodica che lo rende ancora più piacevole.
Rispetto al passato, Savill sembra aver deciso di riannodare i tanti fili che aveva cominciato a dipanare, conferendo al suono dei Monster Movie una compattezza stilistica finalmente definita: il muro sonoro è quello - morbido e poderoso al tempo stesso, stratificato di cori e riverberi - dello shoegaze di marca Slowdive e Ride, ma l'immediatezza di ogni episodio dell'album parla la lingua più diretta del dream pop di oggi. Lo testimonia anche la concisione dei pezzi e la loro urgenza di imprimere immediatamente linee melodiche semplici e quasi sempre molto ariose, come accade nella splendida e cantabile Going Backwards e nella quasi sigurros-iana In The Pines.
Da non perdere. 


 

06 maggio 2017

Slowdive - Slowdive [ALBUM Review]

Abbiamo già avuto modo, a proposito dell'uscita del singolo Star Roving, di parlare del ritorno degli Slowdive sulla scena. L'attesa dell'album per ogni fan della band inglese è stata lunga, e l'anticipazione dell'altro ottimo singolo Sugar For The Pill da una parte ha rafforzato l'idea che quello in uscita sarebbe stato un album memorabile e dall'altra allontanato, almeno in parte, le pur giustificate critiche di chi aveva già inserito quella degli Slowdive nella lunga lista delle tristi reunion di band sciolte da vent'anni e più. 
Ovvio che il primo pensiero è stato questo: Neil Halstead e compagni sono stati un gruppo seminale e ispiratissimo per un periodo molto breve (non più di 5 anni dal '90 al '95), hanno gettato un solido ponte fra lo shoegaze sperimentale e il dream pop a venire, dato alle stampe solo tre album, e poi si sono reincarnati in (splendidi) progetti diversi di cui pochi si sono accorti. Ha senso dopo un ventennio ritornare a quello stile, a quelle chitarre, a quelle dilatazioni, a quel tipo di sonorità? 
Slowdive, quarto album della carriera della band, ha risposto alla domanda in modo tanto sobrio quanto diretto: sì, ne vale la pena. Parlando di Star Roving avevo scritto che il tempo per i Nostri sembrava non essere passato dall'uscita di Pygmalion. In parte è vero, e in parte no. Negli otto ampi, ambiziosi e al contempo molto equilibrati episodi del disco ritroviamo indubitabilmente il tocco personale degli Slowdive: quell'approccio delicato, oscuro ma non troppo, garbatamente melodico, "classico" a suo modo, ai canoni dello shoegaze. E' lì, già dall'iniziale Slomo, che è un ingresso quasi timido ed è la cosa meno convincente del lotto. Poi, quando partono le rasoiate elettriche di Star Roving, quando esplode la ritmica matematica di Simon Scott, quando le voci di Halstead e di Rachel Goswell si mescolano nelle calde spirali delle chitarre e dei synth, allora ci si rende conto che in realtà gli Slowdive del 2017 non sono gli stessi del 1995: sono qualcosa di più profondo e consapevole. Una sensazione che prende corpo e si sviluppa attimo dopo attimo immergendosi nel torrenziale abbraccio di Don't Know Why, nella perfezione sonora e nel gioco di echi di Sugar For The Pill, negli sfrigolanti riverberi di zucchero di Everyone Knows, nel crepuscolare crescendo atmosferico di No Longer Making Time, nella vasta inquieta e complicata partitura di Go Get It e infine nello struggente romanticismo pianistico di Ashes, dove Neil e Rachel diventano un'unica creatura armonica.
In definitiva, e forse è questo il punto, non bisognerebbe nemmeno parlare di reunion. Slowdive è un album di una band che gli anni, le esperienze, la vita hanno arricchito in modo esponenziale, ma non di una band che si era davvero sciolta. E' un disco solido, squadrato, senza fronzoli, ma anche emozionante e a suo modo emotivo. Non è un omaggio ad un genere o ai tempi passati: possiede una quieta urgenza espressiva che testimonia in modo ineccepibile la caratura artistica di Halstead e compagni e che ha tanto da insegnare alle giovani band di oggi. Non è un capolavoro certo, ma è uno di quegli album con cui ti devi confrontare con calma, di cui scopri ad ogni nuovo acolto qualche dettaglio sonoro di cui non ti eri accorto prima, che finiscono sempre per sorprenderti.